La luce in fondo al pozzetto

Breve storia a puntate di una giovane blatta alla ricerca della verità

Gentile lettore,

quello di oggi è un episodio speciale dedicato interamente al vecchio G. che ci racconterà in prima persona alcuni avvenimenti del suo passato.

 

Il disegno della striscia illustrativa è tratto dalla prima illustrazione di Archy and Mehitabel, di Don Marquis, uscita in data 11 Settembre 1922 per il New-York tribune. Il nostro Kopro deve ad Archy, suo illustre predecessore, due cose: l’immagine in questione, e lo stesso rispetto dovuto a chiunque lotti per esprimere se stesso nonostante i propri limiti.
L’ illustrazione all’interno è un opera di Michele Marescutti, che come sempre ci regala la sua personalissima e affascinante visone del mondo di Kopro

13. La vera storia di G.

Sono passate parecchie mute da allora… probabilmente avevo la tua età. Mi aggiravo per la colonia in preda alla tua stessa  irrequietudine, non mi andava più di stare in mezzo a quegli scarafaggi, mi sentivo soffocare. Erano tutti orientati verso gli stessi obiettivi: riprodursi, mangiare, parlare di cibo e riproduzione. Un po’ come è accaduto a te, avevo preso a guardare quella luce con insistenza crescente, e mi convinsi che una cosa così bella non poteva essere dannosa, e se lo fosse stata pazienza, non me la sentivo più di continuare la mia vita in mezzo a quelle altre. Così mi diressi verso l’angolino luminoso, per trovare conferma a quello che pensavo: non poteva farmi alcun male. A differenza tua, che hai attratto solo un vecchio in attesa della fine del suo viaggio, il mio gesto sollevò parecchio scalpore, ma sopratutto risvegliò l’entusiasmo di altri tre giovani esemplari che non esitarono a raggiungermi. Loro erano Kara, Bolo e Feko. Restammo per alcuni giorni sotto la luce, a godere dello sguardo incredulo degli altri membri della colonia, fino a quando la cosa non divenne noiosa per noi e ordinaria per loro, che cominciarono a evitarci e ignorarci.

Decidemmo così di scalare la parete e andare incontro al fascio luminoso. La cosa non mancò di agitare l’intera colonia, che scandalizzata cominciò a gridare al sacrilegio. I loro sguardi inferociti furono sufficienti a farci cambiare idea, o meglio a far credere loro di averlo fatto. La sera stessa, mentre tutti erano indaffarati nelle loro facezie, partimmo verso la foce del grande fiume certi che ci sarebbe stata un’altra feritoia come quella con il suo fascio luminoso. Non ci volle molto per trovarla, una volta arrivati ci accampammo per la notte in attesa della luce. Non appena il fascio ci investì balzai in piedi e svegliai gli altri. Ero elettrizzato  all’idea di cosa potesse riservarci la nostra avventura. Ad accompagnare quello stato d’animo, naturalmente, c’era anche quell’immancabile pizzico di paura, tipico di chi non sa bene a cosa va incontro. Salimmo con estrema facilità. Le nostre giovani zampe aderivano perfettamente alla parete, e in men che non si dica ci trovammo a destinazione. Stetti fermo a guardare quello spettacolo, così anche gli altri tre, per lo meno inizialmente, infatti Bolo, il più aitante fisicamente, si fece rapire dall’emozione e si diresse a tutta velocità verso la luce. Sentimmo solo un grosso spostamento d’aria e il crac del suo giovane carapace. Guardai con circospezione, restando nell’ombra, per accorgermi che i suoi resti erano sparpagliati sul pavimento. Era stato letteralmente schiacciato da qualcosa di molto grande.

La vista di una morte, specie se così tragica, è quasi sempre in grado di spegnere ogni entusiasmo. Il terrore si impossessò di noi, paralizzandoci e incollandoci nella posizione in cui eravamo, a metà strada tra il nostro vecchio habitat e quel luogo nuovo, così sconosciuto e così pericoloso. A rompere il silenzio pensò Kara, che drizzò le antenne per urlare con forza, quasi a volerci scuotere dal nostro torpore: «Cosa faremo adesso?!». Ne io ne Feko riuscimmo a proferire parola, ma ormai sembrava determinata a farci uscire a tutti i costi da quella impasse: «Maledizione, non statevene fermi come dei comuni cumuli di escrementi, cerchiamo di capire cos’è successo!». Dal momento che mentre parlava il suo sguardo era rivolto verso di me, cercai di scuotermi e trovare il coraggio di studiare l’accaduto. Era chiaro che non potevo affacciarmi con leggerezza, o avrei fatto la fine del povero Bolo. Così decisi di guardarmi bene attorno, lo spazio coperto era abbastanza ampio da permettermi una certa visuale dell’esterno senza dovermi esporre. Sfruttai tutta la lunghezza della feritoia per scrutare l’esterno, e notai un frenetico via vai di grossi bipedi e altre strane creature, veloci e rumorose, che sfrecciavano a cadenze regolari. Era chiaro che il nostro amico fosse finito sotto una di quelle.

Passarono parecchie ore, e le trascorremmo a studiare un piano. Quando calò la luce notammo che la frequenza dei passaggi diminuiva sensibilmente. «Ormai siamo arrivati fino qui, non possiamo tornare indietro o Bolo sarà morto invano!» Kara appariva più determinata che mai, il suo entusiasmo ci contagiò entrambi. Così, con la complicità del buio, decidemmo di uscire allo scoperto. L’aria aveva un odore diverso, sembrava molto più fresca, e lo scenario attorno era davvero complesso, con pareti altissime intervallate da aperture da dove quelli strani bipedi giganti uscivano e si affacciavano. Erano davvero orribili. Percorremmo un lungo tratto fino ad imbatterci in uno di loro. Camminava incurante di cosa avesse sotto i piedi, io e Kara, memori dell’esperienza del nostro povero compagno, corremmo subito a nasconderci in una crepa. Feko invece, rimase come incantato, decise di guardarlo da vicino e finì per salirgli sul piede. Appena il mostro si accorse di lui emise un grido acutissimo che ci fece accartocciare le antenne, poi scosse violentemente la zampa scagliandolo a terra. Il povero curioso cadde sulla schiena, indolenzito e stordito, e prima che tentasse anche solo di rivoltarsi e scappare rimase violentemente schiacciato dal piede di quella creatura. I suoi resti stavano li, inermi, scossi ogni tanto da qualche scarica di vita convinta di trovare integri i suoi percorsi abituali.

Non mi accorsi infatti che dietro di me c’era un gatto, uno di quei quadrupedi che spesso convivono con loro…

Concordai a pieno con Kara che quell’ultima morte fosse frutto di una grossa negligenza, qualcosa che Feko non si sarebbe dovuto concedere. Decidemmo di proseguire la nostra esperienza, seppur con la massima circospezione, e ci perdemmo ad esplorare la superficie, fino al ritorno della luce. Non era affatto male se si escludevano i pericoli. Capimmo in fretta di non essere ben accetti. Avrei giurato di disgustarli almeno quanto loro disgustavano me, o forse di più. Era chiaro che avremmo passato la gran parte del tempo a nasconderci o a cercare nascondigli. In poco tempo imparammo a studiarci gli itinerari e i percorsi più sicuri. Il cibo era davvero abbondante, quegli strani mostri lasciavano cadere di tutto, sopratutto sostanze zuccherose e dai colori più strani.

Un giorno, mentre camminavamo nell’intercapedine nascosta di un muro ci imbattemmo in un esemplare della nostra specie. Inizialmente la meraviglia fu tanta, ma poi, pensando a quel mondo così ricco di particolari e possibilità, il pensiero che potessero esserci altri come noi non ci sembrò poi così strano. Sull’onda dell’entusiasmo decidemmo di seguirlo. Si infilò in una fessura che scendeva parecchio in profondità, la scoprimmo l’esistenza di una colonia. Ci fermammo con loro per parecchio mute, ci accolsero senza problemi e ci spiegarono la natura di quel mondo così strano. Quei bipedi erano i dominatori incontrastati della superficie, gli stessi che producevano gli escrementi da cui eravamo convinti di venire, ingerendo e trasformando altre sostanze; gli stessi che avrebbero scavato e costruito il cunicolo del fiume Nylon e tanti altri come quello, al solo scopo di far confluire l’acqua mischiata ai loro rifiuti e alle loro deiezioni. Noi eravamo tra le poche specie in grado di sopravvivere in quell’ambiente per loro insalubre e disgustoso, per questa ragione dovevamo stare alla larga dalla superficie e dai loro abitanti.

Anche quella colonia cominciò a starmi stretta. Non si poteva dire lo stesso di Kara, che si era ambientata perfettamente e non sembrava avere intenzione di andar via. Una sera uscii per la solita passeggiata deciso a non tornare. Camminavo pensieroso, e forse fu proprio quello stato d’animo a rendermi vulnerabile. Non mi accorsi infatti che dietro di me c’era un gatto, uno di quei quadrupedi che spesso convivono con loro, e si preparava ad attaccarmi. Fu tutto molto rapido, un ombra mi coprì quasi interamente. A differenza delle nostre, le zampe dei gatti sono dotate di artigli molto taglienti, ne sentii uno recidermi di netto le due zampe posteriori, l’altro attraversare l’ala sclerificata e scalfire quella sottostante. Per un attimo non vidi più nulla e mi misi a correre all’impazzata. Sentii un altro artiglio sfiorarmi la faccia per agganciarsi alla mia mandibola, mandandola letteralmente fuori asse. Recuperai la vista appena in tempo per notare una feritoia e gettarmici dentro. Cercai di planare come potevo e finii piantato in un ammasso di fango. Fu la che conobbi Luto, che si prese cura di me e delle mie ferite con impacchi di fango. Dopo diverso tempo trascorso con lui, a catalogare le mie esperienze e arricchirle con le sue doti dialettiche fino a creare una visone del mondo tutta mia, mi accorsi che non avevo più mute a disposizione. È per questo motivo che sono tornato alla colonia d’origine con l’intento di lasciarmi morire in pace. Ma poi ho incontrato te, e ho capito che non era ancora giunto il mio tempo.

Continua…