REM: canzonette e ritornelli il loro forte

L’origine del loro nome è curioso e significa “rapid eye movement”, il movimento rapido che l’occhio compie nella fase del sonno in cui si formano i sogni.


Hanno scelto per nome la fase più intensa dei sogni. Sono cresciuti tra party in chiesa e scorribande a bordo di un furgone. Hanno coniato un sound inconfondibile, che unisce il recupero della tradizione americana con uno slancio new wave e un melodismo pop. Una band diventata famosissima al punto che la Warner fece loro firmare un contratto da 80 milioni di dollari. Gli special guest del programma Heroes saranno proprio i REM. L’appuntamento è per stamattina alle ore 11:00 su Radio Sardegna Web, con una loro playlist di 17 minuti senza interventi dello speaker e spot commerciali.


 

I REM: un nome intrigante che viene da “rapid eye movement”, il movimento rapido che l’occhio compie nella fase del sonno in cui si formano i sogni. Era il 1983: tempi difficili per l’industria rock a stelle e strisce. Le classifiche vivevano soprattutto di importazioni britanniche da quando, tra il 1978 e il ’79 era esplosa la new wave. Per i Rem era arrivato il momento di smettere i panni di garage band, di scendere dal camioncino verde “Dodge”, con cui avevano girano l’America senza un dollaro in tasca. Era arrivato il successo. Per capire l’essenza degli Rem bisogna partire dalle loro radici, da quel paesino Athens. sessantamila abitanti di cui ventimila studenti, una terra impregnata della letteratura sudista di William Faulkner e di una ricca tradizione di fiabe noir. I Rem sono l’attrazione delle feste che riempiono fino al campanile la vecchia chiesa abbandonata di O’Connee Street. Fanno un pop esagitato e selvaggio, stile primi Who, con qualche citazione dei Byrds. Ma la loro musa è Patti Smith. A differenza di tante altre college band, gli Rem non temono le umiliazioni. Tra l’80 e l’82 girano l’America. Ad Albuquerque, Nuovo Messico, suonano in un locale per “single”, pieno di bulli e prostitute, rimpiazzando uno show di spogliarelliste: scoppierà una rissa. Si esibiscono anche nella base aerea militare di Wichita Falls, Texas, ma l’accoglienza dei marines non è più tenera: “Volavano arance sul palco – racconta il chitarrista Peter Buck – e ti passavano bigliettini con messaggi come: ‘Se suonate ancora una canzone come questa vi pestiamo, brutti froci!'”. La prima uscita discografica del gruppo, dopo il brioso singolo “Radio Free Europe”, è l’Ep Chronic Town (1982), in cui già emergono alcuni brani particolarmente graffianti, come l’energica “1,000,000” (con più d’una reminiscenza punk), il carillon psichedelico di “Carnival Of Sorts” e la orientaleggiante “Gardening At Night”. Il disco, tuttavia, non supera i ristretti confini del circuito indie. Ma già all’esordio su 33 giri, con Murmur, gli Rem diventano il gruppo del momento negli Stati Uniti, l’unico capace di fare musica “underground” conquistando il pubblico. È proprio con questo lavoro che il concetto di “musica alternativa” troverà negli Stati Uniti un formidabile veicolo di diffusione. Attingendo alle fonti più pure della tradizione americana, al roots-rock e al folk d’annata, gli Rem rigenerano quei suoni, aggiornandoli al tempo del post-punk e del pre-grunge. Gli Rem si rivelano soprattutto una straordinaria macchina sforna-singoli, un gruppo “da singoli” (o, quantomeno, “da canzoni”) più che da album. Il livello complessivo della loro produzione, comunque, resta sempre altissimo per un gruppo che si pone idealmente al crocevia tra rock alternativo e mainstream. Nel 1985 i Rem sembrano a un punto di svolta della loro carriera: possono diventare una delle mille indie band che è riuscita a imbroccare un album e poi si è persa nelle nebbie dell’underground, oppure alzare la testa e guardare più in alto, cercando di rivitalizzare il magico sound dell’esordio e sfondare definitivamente. La scelta di accentuare l’impegno sociale e politico nei testi, unita a un recupero del loro mood più nostalgico e struggente si rivela subito una mossa indovinata. Ormai consapevoli dell’affiatamento raggiunto e della maturità del loro sound, i ragazzi di Athens riescono finalmente a mettere a fuoco la cosa che riesce loro meglio: le canzoni, i ritornelli, gli hook indispensabili per catturare il pubblico e attirarlo per sempre a sé.

La luminosa produzione di Scott Litt infonde una buona dose di energia rock alle loro sonorità. Sempre ironico, sagace, polemico (il titolo originario doveva essere “Last Train To Disneyland”), l’album è un nuovo trionfo e segna la fine della gloriosa stagione della Irs, la piccola etichetta che aveva accompagnato tutte le produzioni degli Rem fino ad allora e che si “sfogherà” pubblicando ben due raccolte, Dead Letter Office (con rarità e cover) e la più sostanziosa antologia Eponymous. Ma Stipe e soci sono ormai delle star e le major fanno a gara per ingaggiarli. Alla fine la spunta la Warner, con un contratto da capogiro: dieci milioni di dollari. Gli ex-squatter di O’Connee Street dettano alcune precise condizioni (controllo sul prodotto, possibilità di rifiutare interviste, show televisivi, concerti etc.) ma rischiano di farsi stritolare dall’industria del rock. Almeno inizialmente, non sarà così. Il primo album dell’era-Warner è Green (1988), ovvero “verde” come “il colore degli ecologisti, ma anche dei dollari”. Il messaggio è una sorta di riarmo morale di fronte al cinismo di quegli anni. Al disco segue un lungo tour che consacra i Rem come uno dei gruppi di punta del momento. E i riscontri commerciali cominciano a diventare sostanziosi: Green venderà oltre il doppio degli altri dischi. In piena guerra del Golfo, esplode l’album del trionfo mondiale, Out Of Time (1991), oltre quindici milioni di copie vendute, numero 1 nelle classifiche. Quasi frastornati dal successo, Stipe e soci si rifugiano nelle ombre di Automatic For The People (1992), l’album più cupo e funereo della loro carriera. Dominato dall’ansia di vivere e dalla paura della morte, il disco resta sempre su sonorità soffuse, quasi da camera, sostituendo la briosità dei lavori precedenti con più maestosi e oppressivi arrangiamenti orchestrali, che portano in molti casi la firma di John Paul Jones dei Led Zeppelin. Quando nel 1994 esce Monster, la sorpresa è forte. Gli Rem, infatti, si ridestano di colpo dai languori depressi del disco precedente, sfoderando una delle loro performance più dure e irruente di sempre. I più maliziosi faranno due più due e metteranno in relazione la svolta con il contemporaneo boom del grunge di Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden (e in effetti fu proprio in quel periodo che i contatti tra Stipe e Kurt Cobain si intensificarono; e il leader dei Nirvana si suiciderà proprio durante le session di registrazione del disco). Gli altri semplicemente riconosceranno agli Rem il coraggio di aver voluto ancora voltare pagina. Fatto sta che Monster è un disco capace ancora di emozionare per la rabbia e l’energia che riesce a sprigionare. Nel frattempo, la band di Athens ha stipulato un nuovo supercontratto con la Warner: 80 milioni di dollari incassati per produrre una decina d’album con cadenza biennale, neanche si trattasse di una fabbrica di piastrelle. Ma è proprio a questo punto che la favola dei ragazzi georgiani s’incrina forse definitivamente. Stanco del mestiere di rockstar e spaventato dall’incidente di Losanna, Berry si ritira. “Quando ci ha lasciato – racconta Stipe, cantante e leader della band – ci sentimmo finiti. Ma solo per tre minuti. Poi la voglia di continuare ha preso il sopravvento”.

Stipe, Buck e Mills, dunque, decidono di andare avanti ugualmente. “Un cane con tre gambe è pur sempre un cane”, aggiungerà ancora Stipe. Peccato, però, che il “cane a tre gambe” non saprà più mordere, inanellando tre album sconfortanti come Up, Reveal e Around The Sun, inframezzati nel 1999 dalla colonna sonora di Man On The Moon, il film di Milos Forman sulla vita di Andy Kaufman. Un po’ della poesia e del mistero dei tempi passati è, inevitabilmente, perduto, ma questa, purtroppo, non è una novità. Così, se non un definitivo ritorno alla forma dei bei tempi, il nuovo lavoro di Stipe e compagni dimostra almeno che nel cuore affaticato ed un po’ consunto della band, attiva ormai da un quarto di secolo, scorre ancora sangue fresco e che non è, per ora, ancora giunto il momento di mettere la parola fine ad una esperienza che, a tratti indimenticabile, ha segnato la storia del rock degli ultimi tre decenni. Pare che il punto di non ritorno della parabola degli Rem sia arrivato durante quello che verrà ricordato come l’ultimo tour della loro storia, nell’estate del 2008. I tre membri reduci di una delle band più significative della storia del rock, quella che più di ogni altra ha tenuto a galla un certo modo di fare e di pensare il rock quando una trentina di anni fa pareva che tutto fosse destinato a finire nel tritacarne del sintetico e dei lustrini, erano caduti e s’erano rialzati, e guardandosi in faccia si dissero che probabilmente non c’era più molto altro da dire. Così, si sono ritrovati a guardarsi in faccia, Stipe, Mills e Buck, e hanno pensato tutti più o meno la stessa cosa. Facciamo quest’ultimo disco con la Warner, e poi giù il sipario. E così, una manciata di mesi dopo si sciolgono.