Michelangelo Sardo. La fotografia per lui? Tutto e niente.

“La professione come si intendeva venti anni fa oggi non esiste più, se non a certi livelli”.


Artista e fotografo, Michelangelo Sardo si è formato fin dall’infanzia nella fotografia, si è specializzato nella tecnica fotografica con i maggiori professionisti del settore. Ha frequentato le scuole di fotografia isolane dal laboratorio di Carlo Cioglia al Man Ray ed ha seguito workshop con Steve McCurry, Jacob Aue Sobol, Alain Laboile e non solo. Lo abbiamo intervistato….


Michelangelo sei reduce da una mostra al Castello di San Michele di Cagliari intitolata “Undici notevoli storie”. Di cosa si è trattato esattamente e com’è andata? 

“Si tratta di una collettiva di fotografia nella quale vengono esposti i lavori di undici artisti che quest’anno sono stati ospiti della nostra scuola. Ogni partecipante ha portato un progetto personale, la lettura della mostra dunque necessita di una attenzione particolare, poiché nel passare dalla lettura di un argomento a quella del successivo è indispensabile fermarsi e ripartire da zero, con la predisposizione che merita un discorso a sé stante, in nulla legato a quello precedente. E’ altresì vero che è visibile un filo conduttore, un sentire comune che inevitabilmente si sviluppa nell’esame collettivo di una grammatica dell’immagine che abbiamo portato avanti in nove mesi di corso. Gli argomenti trattati spaziano da tematiche introspettive, esistenziali, ad altre decisamente più leggere o disinvolte. Tutte hanno la loro grande importanza. Anche comunicare leggerezza è un importante compito dell’arte”.

Ci fai i nomi dei partecipanti perché meritano di essere menzionati….

“Presto detto: Laura Atzori, Carola Baccialle, Vincenzo Cara, Martina Cavalcante, Federica Gerardi, Rosa Locci, Davide Manca, Pierpaolo Manias, Martina Marongiu, Davide Podda, Angela Secchi. Alcuni di loro hanno una importante esperienza fotografica, altri hanno preso in mano la macchina durante il corso per la prima volta. Tutti hanno raccontato le loro storie con consapevolezza tecnica e con un linguaggio preciso e accurato”.

Oggi, secondo te, c’è ancora passione ed amore verso la professione del fotografo oppure si punta subito all’introito…..soprattutto facendo matrimoni?

“La professione come si intendeva venti anni fa oggi non esiste più se non a certi livelli: per fornire la maggior parte dei servizi oggi non occorrono grandi competenze e la dimensione artigiana di questo lavoro è venuta meno. Padroneggiare l’esposimetria o la conversione della profondità di campo su diversi formati è estremamente utile e nella maggior parte dei casi solleva non di poco la qualità di un reportage. Sono però aspetti che pochi riconoscono. Salvo poi trovarsi davanti a una foto realizzata a regola d’arte e rimanere senza parole. Sicuramente, perché venga apprezzato il fascino di un lavoro fotografico, occorre spiegare bene i dettagli di come si lavora. Chi sa lavorare non ha paura di rivelare “segreti”. Non si diventa fotografi con i tutorial ma anzi servono anni, tanto studio, tanti esperimenti e sbagli e tanta applicazione. Qualcuno punta all’introito ma chiariamo subito che dedicarsi ai matrimoni non è un buon affare, specialmente se si vuole offrire un prodotto a regola d’arte.  Esistono ovviamente gli appassionati, non sono pochi e sono molto in gamba ma pochi fanno i fotografi a tempo pieno. Io alterno il lavoro di fotografo con quello di docente”.

 Cosa rappresenta per te la fotografia in termini emotivi?

“Tutto e niente: la fotografia, intesa come arte minore, è un modo, utile e non indispensabile, per comunicare e esprimersi come qualunque forma d’arte. Vengo da una famiglia di artisti: ho avuto a disposizione da prestissimo materiale pittorico professionale, strumenti musicali e macchine fotografiche. Ho capito molto presto l’importanza di dedicarsi a qualunque di questi mezzi: tutt’oggi coltivo queste attività, mi sono utili senza un fine diverso dal coltivarle. Senza la fotografia farei altro: scultura, pittura, musica.

Quanto fotografi per lavoro e quanto per diletto?

Ho smesso di fotografare per lavoro da diversi anni, in realtà seguo il lavoro di molti miei allievi nell’ambito dei corsi, poiché il fine principale della scuola è quello di mantenersi con la fotografia. Sto pensando di riprendere con la fotografia professionale ma coinvolgerò tutti gli ex allievi, ormai colleghi, molti affermati da tempo. Mi rimane poco tempo per fotografare per diletto, più che altro lavoro alla realizzazione dei lavori che porto in giro per l’Europa. Fotografare per diletto richiede tempo, lo faccio durante i viaggi e i brevissimi periodi di vacanza, realizzando immagini tra le mie preferite. Forse è il caso di riordinarle e dar loro una forma. Prima o poi”.

C’è stato un incontro con qualcuno che si rivelato importante per la tua crescita professionale?

“Certamente. E non sono tutti fotografi. Ricordo senz’altro Alain Laboile fonte di ispirazione con il quale mi sono trovato in grande sintonia, che mi ha indirizzato nel migliore dei modi verso il mercato europeo. Francesco Cito, che mi ha dato una sua lettura dell’importanza dell’attività dei fotografi in Italia. Saul Robbins, che mi ha permesso di vedere le sue sperimentazioni e i lavori più intimi prima che i suoi insegnamenti di marketing (che presta all’ I.C.P. di New York). Costantino Pes, che mi ha permesso di apprezzare sul campo l’importanza della collaborazione con un antropologo nella fotografia etnografica. E poi ancora Steve McCurry, che non ha lesinato consigli importantissimi per l’orientamento professionale, raccontato e discusso la propria personale esperienza e suggerito i percorsi oggi più convenienti per chi si dedica al reportage. Mario Dondero, che mi ha insegnato a guardare in modo consapevole alla missione dei reporter e del ruolo della fotografia nella società più che tra le arti. Pablo Volta, che per primo mi ha mostrato l’umiltà e la disponibilità che spesso caratterizza i più grandi. Anne Eliayan e Françoise Galeron che hanno ospitato ripetutamente le mie opere per “Les rencontres” di Arles e poi William Klein e la sua allegria e cordialità inattaccabili dall’età e da una sedia a rotelle ed infine Jamèl Van de Pas che mi ha messo a parte del suo percorso nella fotografia internazionale”.

Cosa ti piace fotografare di solito?

Lavoro prevalentemente sulla figura umana e sul ritratto, sugli ambienti abitabili, sulle impressioni. Mi interessa quasi esclusivamente ciò che ruota intorno alla persona, che la descrive, la nobilita. Trovo sia lo scopo più vero dell’arte. Considero fra le più alte forme d’arte la moda (quella vera, quella di tutti i giorni) e la cucina, per esempio. Mi soffermo molto sulle forme naturali, vegetali, mi attraggono gli insediamenti urbani nel loro rapporto con la natura, i paesaggi urbani come qualunque situazione possa suscitare una impressione forte, in generale gli ambienti sociali e gli interni delle case. Spesso fotografo di notte”.

Secondo te, quando si fotografa, c’è bisogno di creare empatia con i tuoi soggetti? Siano essi semplici oggetti o persone in carne ed ossa…..

“Non è una condizione indispensabile ma aiuta molto. Mi piace raffigurare l’espressione esteriore della personalità più vera. Alcuni dei modelli e modelle che prediligo sono innanzi tutto persone che ammiro per motivi non legati al loro aspetto. Penso che la fotografia sia primariamente documento: la sua natura è quella. Ci si può dedicare a un genere pittorialista, con la consapevolezza di essere fuori dall’equivoco che la fotografia debba improntarsi alla pittura. Sono mezzi naturalmente distinti, incompatibili e antitetici. Chiarito l’equivoco si può anche fare, consapevolmente e a carte scoperte, della “fotografia pittorialista”. Oggi però il documento è stato scavalcato: i reportage, quelli che documentano l’imprevisto sul posto e al momento giusto, sono realizzati con videocamere di sorveglianza e immagini di telefoni cellulari. Lo stesso lavoro del fotoreporter è cambiato profondamente. I documenti realizzati professionalmente possono tutto al più, nella maggior parte dei casi, fare da contorno a una raccolta di immagini provenienti da più fonti, molto più attinenti e puntuali. Anche la qualità dei dispositivi portatili è ormai confrontabile con quella delle macchine più impegnative. Rimane la fotografia come interpretazione, spesso parziale, la poetica del togliere, del colpo d’occhio, lasciare al lettore i margini per riconoscere, nelle immagini che non svelano troppo, i propri luoghi, i percorsi personali, le proprie memorie. Quando si lavora con le persone, l’empatia è secondo me già nel documento, nella rappresentazione della storia stessa, per quanto storia personale e circoscritta”.

Tre consigli utili per diventare dei fotografi adeguati?

“Dipende dal limite che vogliamo dare al termine adeguatezza e i consigli sarebbero di carattere puramente tecnico. Non bisogna perdere di vista tre cose. La prima cosa è l’intenzione, quando si decide di fermare, circoscrivere, storicizzare, interpretare un pezzo più o meno personale di realtà, non è possibile essere ambigui. Il contenuto deve essere unico e chiaro, ben distinto, anche a livello grafico, non devono intervenire elementi che creino dubbi sulla direzione del messaggio. La lettura di una fotografia dura pochi secondi, non è possibile trasformarla in un film o in un racconto. Si producono miliardi di fotografie ogni giorno, quasi tutte inutili. Quelle che sopravvivranno sono quelle di buona fattura realizzate con una fortissima intenzione. Senza, la fotografia non può suscitare alcun interesse. La seconda cosa è l’onestà intellettuale. La fotografia è sempre vera e sempre falsa. Rappresenta sempre qualcosa di necessariamente reale a meno di fare ritocchi pesanti ma nel contempo è una rappresentazione parziale, un punto di vista soggettivo, che mette in relazione per posizione di lettura e per proporzione manipolando la prospettiva tramite la distanza e la selezione, che vuol dire cernita e esclusione, di cosa viene rappresentato. La terza cosa riguarda le due anime della fotografia: la prima ci obbliga a catturare l’istante, l’espressione, il documento, ci richiede pratica quotidiana e abilità estrema e virtuosistica, ci permette dunque di sondare la realtà nascosta e fugace, di cogliere e tentare di decifrare ciò che quotidianamente intravediamo solamente. La seconda, rifiutata da molti puristi, ci trasforma invece in drammaturghi, registi, scenografi, direttori della fotografia, ci permette di raccontare, spesso in modo semplice e immediato, storie che col mezzo del cinema, che comunque usa accorgimenti estremamente diversi e anche antitetici, richiederebbero preparativi lunghi e estenuanti. Sono due piani da non confondere mai”.