Kraftwerk: musicalmente più avanti del loro tempo

Tra i pionieri della musica elettronica, il cui stile musicale ha influenzato la musica del XX secolo


I Kraftwerk sono un gruppo musicale tedesco di musica elettronica, formatosi a Düsseldorf nel 1970. Sono considerati tra i pionieri della musica elettronica. In un periodo, gli anni 70, dove tutto era chitarra, tastiere e fiati loro sono arrivati con effetti elettronici straordinari e mai sentiti prima. Ne è venuta fuori questa musica robotica che tanto ha fatto storcere il naso ma poi ha incuriosito…e parecchio. Troppo moderni per il loro tempo, troppo strani ascoltandoli. Ma poi…la loro musica attrae e non poco. Una band per molti ma non per tutti. Questa mattina, alle ore 11:00 su Radio Sardegna Web, i Kraftwerk saranno gli special guest del programma Heroes, che dedicherà loro una playlist di diciassette minuti (Massimo Salvau).


La formazione classica, che registrò la maggior parte degli album e che ottenne il maggiore successo, era composta dai fondatori Ralf Hütter e Florian Schneider con Karl Bartos e Wolfgang Flür che lasciarono il gruppo rispettivamente durante gli anni novanta e ottanta. Gruppo ispirato al minimalismo e alla musica colta, i Kraftwerk si distinguono per lo stile volutamente freddo e in qualche modo vicino all’estetica futurista. Le loro sonorità ritmiche e robotiche li hanno resi importanti antesignani di innumerevoli tendenze della musica elettronica, quali la techno, la musica house e la musica industriale, l’hip hop nonché gli inventori del cosiddetto “techno pop”: un genere che sarebbero andati a definire con Autobahn (1974), l’album della loro svolta “commerciale”. Il gruppo definisce il suo stile musicale come robot pop mentre la loro etichetta discografica AllMusic li fa anche entrare nel novero dei gruppi del proto-punk, del rock sperimentale e dell’indie rock. La musica dei Kraftwerk è frutto di un’evoluzione. Con i primi due omonimi album del 1970 e del 1972, lo stile della formazione è vicino alla musica cosmica tedesca e sarebbe “ispirato ad angoscianti realtà metropolitane, con ostiche sonorità ai confini del rock”. Dopo l’album di transizione Ralf and Florian (1973) il gruppo prende le distanze delle origini per avvicinarsi al rock elettronico con Autobahn, caratterizzato da un sound più personale. Il primo album interamente elettronico è però Radio-Activity (1975) che segna un momentaneo e parziale riavvicinamento all’avanguardia dei primi dischi. Il successivo e più ballabile Trans-Europe Express (1977) è considerato un altro capitolo importantissimo nella discografia dei Kraftwerk che accosta pop e musica concreta, mentre Il seguente The Man Machine (1978) “riprende e attualizza le migliori invenzioni dei primi Kraftwerk ultra sperimentali e lancia in orbita un’inedita forma di technopop ad alto quoziente di aristocrazia dandy”.

In dischi più recenti quali Computer World (1981) ed Electric Café (1986) il gruppo di Düsseldorf si avvicina alla dance minimale. Vorrei però farvi notare una cosa: se è innegabile che nella storia della musica, dal primo jazz e dal blues in avanti, sono stati quasi sempre i neri a tracciare le strade poi percorse e aggiungerei poi bastardamente espropriate dai bianchi, è altresì vero che i Kraftwerk costituiscono un’eccezione, l’unica. Sono i soli bianchi ad avere influenzato dei neri che a loro volta hanno influenzato altri bianchi. E’ questo a rendere la loro presenza così pervasiva nella musica odierna: non fanno dischi da più di dieci anni, eppure sono ovunque, importanti come non mai. I Kraftwerk sono stati originali anche nei testi: essenziali come le architetture dei brani e redatti spessissimo in più lingue. Non solamente tedesco e inglese ma anche francese, italiano, giapponese. La specificità tedesca è l’architrave dell’universalità di canzoni dall’ironia sottile, amarognole ma in fondo ottimiste come un romanzo di Asimov. La loro è una visione del futuro che viene da un passato in cui era possibile immaginare tempi a venire prosperi e ordinati, fatti di città linde, immensi spazi verdi, autostrade a otto corsie regolate da giganteschi cervelli elettronici. Prima della guerra del petrolio e del microchip. Prima di Blade Runner. Prima del cyberpunk. C’è una massima di Thomas Huxley che a me piace tanto: “Il destino delle nuove idee è di cominciare come eresie e finire come superstizioni”. E di nuove idee i Kraftwerk ne avevano sempre. E’ diffusa la favoletta secondo la quale ci sarebbero dei Kraftwerk buoni e dei Kraftwerk cattivi. I primi facevano avanguardia, i secondi vendettero l’anima al pop sintetico per un po’ di soldi. A separare il “prima” dal “dopo” ci pensa l’album Autobahn. Rilevato che è proprio quanto hanno realizzato da quel disco in poi a fare dei Kraftwerk ciò che sono, tocca subito dopo appuntare che nella loro storia non vi sono strappi ma evoluzione nella continuità. Prima la popolarità dei dusseldorfiani era limitata alla Germania e relativa: 60.000 copie vendute del primo 33 giri, 50.000 del secondo, 100.000 del terzo. Quanto bastava a pagare i conti di casa dei musicisti e ad aggiornare l’hardware dei Kling-Klang Studios. Hutter e Schneider non dovranno più fare acrobazie per comprare un registratore o uno strumento elettronico si pensava. Tanto Autobahn è compatto tanto Radioactivity (che gli viene dietro a distanza di un anno e battezza il rapporto con la Emi), è frammentario. Cinque brani su dodici non superano il minuto e mezzo. I Kraftwerk erano anche questo. Hanno lasciato un segno profondo nella storia della musica, creando un linguaggio pop universale e influenzando interi generi (dalla new wave alla disco, dall’hip hop alla techno).